Trama:
È un grande problema quando una regina ha imposto su di te una maledizione che ti succhia la vita. È un grande problema quando la tua unica speranza di salvezza è un albero di dodici metri che può stritolarti con le sue radici se non gli vai a genio. È un grande problema quando i tuoi compagni hanno una scarsissima considerazione delle tue capacità. Ma, soprattutto, è un grande problema quando sei un elfo solo per metà.
Dal Blog True Fantasy http://truefantasyitaly.blogspot.com/
Eccovi la recensione del libro - mi piace molto“Gli antenati del Fantasy”: Una passeggiata tra gli alberi e i loro “spiriti”
Qualche
tempo fa, spinta dalla curiosità verso nuovi autori fantasy e dalla
passione per le storie che si intrecciano attorno alla figura degli
Elfi, ho letto il romanzo di Valentina Capaldi, Elfo per metà,
il primo capitolo di una saga (in corso di scrittura) che racconta la
storia di Caleb, metà Elfo e metà Mago minacciato da una maledizione che
solo la perfida usurpatrice Tania può annullare. Per liberarsi da
questo maleficio che risucchia la sua energia vitale, Caleb deve
penetrare nella città degli Elfi, dove dimora la regina Tania, per
costringerla a sciogliere l’incantesimo impostogli, ma la città è difesa
da una barriera magica mantenuta salda da un essere sovrannaturale e
misterioso.
E così ho accompagnato Caleb alla
ricerca di questa creatura “elementale”, Lifaen, il guardiano della
foresta, all’apparenza (e solo all’apparenza) un enorme albero secolare
pronto a stritolare tra le sue nodose radici il nostro Elfo per metà. È
proprio da Lifaen che voglio partire perché è da lui che questa breve
passeggiata tra alberi magici e creature a loro legate ha inizio.
Giunto
nel cuore della foresta, Caleb si trova davanti a un personaggio molto
diverso da come immaginava il guardiano di cui è alla ricerca: Lifaen,
infatti, è un creatura molto simile a un piccolo mago, è lo spirito
della quercia di dodici metri con cui il protagonista si trova a
ingaggiare una lotta cruenta che ne mette alla prova le capacità. Il
piccolo essere è un “elementale” che coniuga in sé vecchio e nuovo, come
da tradizione, ma in modo fascinoso e divertente.
Lifaen,
infatti, è piccolo e buffo, ha le fattezze simili a quelle di uno
gnomo, ma il suo aspetto legnoso ricorda molto da vicino quello di un
arbusto. Spiritoso e goliardico, la sua rappresentazione suscita il mio
vivo interesse non solo per l’originalità della sua figura, ma anche e
soprattutto per l’annosa tradizione nella quale si inserisce in modo
così calamitante.
L’idea di un albero secolare
che racchiude in sé la vita ha qualcosa di suggestivo e fiabesco, ma
quando questa linfa vitale prende la forma di una creatura del “piccolo
popolo”, di uno gnomo o di un essere sovrumano la fiaba si tinge e muta
un po’ la sua fisionomia, fino ad assumere toni e contorni tipici del
fantastico, un fantastico che ha radici così profonde da esortarmi a
immergere la mente nei recessi della memoria, fino a recuperare le
figure di driadi e ninfe in metamorfosi, come la bella Dafne amata da
Apollo.
Quanti alberi e arbusti che un tempo
erano ammalianti fanciulle semi-divine popolano i miti antichi! C’era un
nome, per queste divinità che abitavano e custodivano gli alberi, che
nascevano con essi e ai quali la loro esistenza era legata. Stiamo
parlando delle Amadriadi. Il nome, secondo un’etimologia,
significherebbe “coloro che vivono insieme all’albero”. Le Amadriadi
erano fanciulle bellissime protettrici degli alberi che le ospitavano,
ridenti alla pioggia e tristi dinanzi al danneggiamento delle loro amate
cortecce. Alla morte della pianta di cui erano lo spirito, si
mostravano alla vista come figure di donne in lutto, corrose dal dolore,
e finivano per morire assieme all’albero con il quale erano nate e
senza il quale non potevano più vivere.
Tutte
donne, le Amadriadi: figure femminili legate alla natura. Spiriti
arborei di fattezze virili non appaiono nei miti e nelle storie
“classiche”. Le forze maschili, in quel repertorio leggendario, sono per
lo più rappresentate da Pan e dai Satiri. Lifaen, se davvero ne fosse
un discendente, sarebbe un meraviglioso ibrido, spirito maschile della
natura, eppure custode di un albero - anzi, dell’intera foresta - come
una flessuosa Amadriade!
Certo, siamo in un
territorio scosceso, sdrucciolevole, stiamo cercando antenati illustri
nel mondo classico, nonostante sia noto che il fantasy affondi le sue
radice nella cultura favolistica nordica e anglosassone. Ma in fondo
stiamo parlando degli spiriti degli alberi in entrambi i casi! Provo a
pensare chiudendo gli occhi, cerco nella mente un punto in comune,
qualcosa o qualcuno che accomuni il cuore nordico del fantasy al
retaggio dei “miti di natura” greco-romani. Forse ho trovato sul
comodino quello a cui stavo pensando e che ancora non riuscivo a mettere
a fuoco. Un libro dalla copertina purpurea. La sua origine è
anglosassone, però, più che nordica, ma la storia che riporta è
profondamente fantasy, con venature classicheggianti. Anche lui è un
ibrido, come Lifaen! Ma il genere... Il genere letterario è anomalo per
le nostre disquisizioni... Eppure è sorprendente: non un romanzo, non un
racconto, ma una commedia!
Il nostro uomo dell’ibrido è uno dei più grandi drammaturghi che sia mai esistito: si tratta di William Shakespeare e la commedia in questione è La Tempesta.
Abbastanza
nota l’intricata trama del dramma, alla quale farò solo un rapido
accenno: Prospero, legittimo duca di Milano, ha una passione singolare:
la magia. Ammaliato da questa e dai suoi amati libri, dai quali apprende
le arti magiche, non si accorge delle macchinazioni di suo fratello
Antonio per sottrargli il titolo di duca. Anche qui, come nella storia
di Caleb, un usurpatore. Antonio si allea col re di Napoli e insieme
bandiscono Prospero e sua figlia, l’allora piccola Miranda, ponendoli in
un’imbarcazione di fortuna che, con l’aiuto della Provvidenza, li
conduce in un’isola, un’isola sulla quale Prospero incontra Ariel, uno
spirito degli alberi, imprigionato in un pino dal sortilegio della
strega Sicorace. Ariel (o Ariele come nella traduzione di F. Franconeri)
è uno spirito dei boschi, ed è uno spirito maschile (non ci si lasci
ingannare dal nome che riecheggia note disneyane ante litteram);
uno spirito legato al vento, all’aria e alla tempesta, liberato da
Prospero e dunque suo servo. Molto differente, dunque, la sua posizione
rispetto a Lifaen, signore della foresta e di se stesso. Ariel, al
contrario, è due volte prigioniero: del tronco di pino, in primo luogo, e
del mago Prospero, in secondo. Egli desidera soltanto ristabilire
l’ordine e adeguare la sua condizione al suo nome: Ariele, libero e
franco come l’aria. È a lui che Prospero si rivolge per scatenare una
tempesta e condurre i suoi nemici nella stessa isola dove è stato
relegato. Ariel pare un novello Eolo, votato alla metamorfosi e capace
di trasformarsi in “ninfa del mare” e in “Cerere”, la greca Demetra, e
in molte altre forme. La metamorfosi e l’albero sembrano unirsi in
questo spirito shakespeariano, che riassume su di sé il ruolo teatrale
del servo, tipico della commedia latina, e la figura fiabesca dell’
“aiutante magico”, che solo alla fine della commedia, dopo aver
espletato l’ultimo compito impartitogli dal suo salvatore (soffiare una
bonaccia che riconduca a casa i protagonisti), ritorna padrone di sé:
PROSPERO: “Ariele, mio diletto: ecco dunque cosa dovrai fare: e poi torna nell’aria ove sarai libero e felice...” (La tempesta, Atto V,1, trad. F. Franconeri)
Ariel
è una creatura “elementale” che in un albero si ritrova ad essere
prigioniero. E se di prigionia o di castigo si parla, e di uomini
imprigionati in tronchi di arbusti, l’immagine che sovviene alla mente
non può che essere quella dantesca di Pier delle Vigne del XIII canto
dell’Inferno. In un’intricata e fosca boscaglia, ben lontana
dalla verdeggiante e profumata foresta di Lifaen, Dante-personaggio
sente desolati lamenti tutt’intorno e non capisce da dove provengono,
finché la sua guida, Virgilio, il poeta dell’Eneide, gli suggerisce di provare a spezzare un ramoscello tra le fronde che si aggrovigliano in questa macchia gemente.
Non linfa o rugiada stilla dal ramo, ma sangue. Dante e la sua guida si trovano nella selva dei suicidi (Inf. XIII, 31-39):
Allor porsi la mano un poco avantee colsi un ramicel da un gran pruno;e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».Da che fatto fu poi di sangue bruno,ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?non hai tu spirto di pietade alcuno?Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:ben dovrebb' esser la tua man più pia,se state fossimo anime di serpi».
Le
anime dei suicidi albergano negli alberi, di coloro che hanno rifiutato
il corpo e per contrappasso sono intrappolati in arbusti e scuri
tronchi. Allo spezzar dei rami, sangue umano gocciola dagli “sterpi” e
sorprende il povero Dante. Non spiriti di boschi, ma spiriti di uomini
che furono, anime dannate. Ma Dante ha un modello ben chiaro che segue
puntigliosamente: quel Virgilio che lo accompagna e che, nel suo poema,
scriveva la storia di un certo Polidoro, il più piccolo dei figli di
Priamo, re di Troia. Nel suo lungo viaggio, Enea, fuggito dopo la caduta
della sua città, approda in Tracia e qui assiste a un prodigio:
Mi inoltrai nel tentativo di strappare dal terreno verdeggianti virgulti per ricoprire gli altari di rami frondosi, e vedo un portento orrendo e mirabile a dirsi. Infatti dall’arbusto che per primo, divelte le radici, sradico sgorgano gocce di nero sangue e sangue corrotto macchia la terra. Un freddo brivido mi scuote le membra e gelido il sangue mi si rapprende per la paura.
(Eneide, III, 24-30)
Enea,
come Dante secoli dopo di lui, afferra un ramoscello innocuo dal quale
sgorga nero sangue (il “sangue bruno” dei versi dell’Inferno) e dall’arbusto ferito una voce si libera:
‘Perché, Enea, laceri uno sventurato? risparmia un uomo già sotterrato, risparmia le tue pie mani dalla contaminazione del delitto. Troia non mi generò a te estraneo né questo sangue gronda da un tronco. Ahimè, fuggi le terre crudeli, fuggi l’avida sponda: ecco, io sono Polidoro. Qui, trafitto, una ferrea messe di frecce mi coprì e crebbe di aguzzi dardi.’
(Eneide, III, 41-46)
La
voce proviene dall’albero, sì, ma non si tratta del suo spirito o di
un’amadriade, come all’inizio Enea, allibito, è portato a credere. Si
tratta di Polidoro, il figlio minore del re Priamo, che questi inviò da
un parente, Polimestore, perché si salvasse e sopravvivesse alla rovina
del regno di Troia, distrutto dai Greci. Ma Polidoro porta con sé grandi
tesori, e a causa di essi viene ucciso per avidità da colui che avrebbe
dovuto proteggerlo; tuttavia il suo spirito sopravvive in un arbusto
cresciuto sul terreno dove il suo corpo insepolto era stato abbandonato.
Una storia triste e cruenta, eppure con un finale profondamente umano.
Enea consegna a una dovuta sepoltura Polidoro e concede pace alla sua
memoria. Anche lui, come Ariel, è finalmente libero dalla terra e dalla
sua prigionia.
Non Enea, ma Virgilio salvò la
memoria di Polidoro, che giunse fino a Dante, il quale la sigillò
nell’episodio di Pier delle Vigne, in una commedia, molto diversa da
quella shakespeariana di cui abbiamo parlato, una Commedia “Divina”, uno
dei più grandi e mirabili repertori di miti e di memoria che la nostra
cultura abbia prodotto.
Lavinia Scolari
Ciao! Sono sibilla Fior di Corallo! ho visto il tuo blog da Fatemania.. hai un bellissimo blog! io ti seguirò volentieri! Io ho due blog.. "lo scrigno di Sibilla" e "I racconti di Sibilla" do ve tengo tutti i miei racconti.. Se ti va passa da me!
RispondiEliminaA presto..Sibilla
Ciao Sibilla e benvenuta nel regno degli Elfi! Grazie per esserti aggiunta ai miei lettori fissi. Sono contenta che ti piaccia il mio Blog.
RispondiEliminaOggi non ce la faccio proprio ma nei prox giorni verrò volentieri a trovarti nei tuoi Blog
Buon fine settimana ..